ASCOLTARE DAVVERO – Capitolo 1/5: Spotify è il problema? O solo lo specchio?

Cosa abbiamo perso mentre tutto diventava più facile da ascoltare? Clicchiamo play ogni giorno, ma ci fermiamo mai davvero ad ascoltare? Spotify, MP3, algoritmi e il valore che abbiamo smarrito per strada.

ASCOLTARE DAVVERO – CAPITOLO 1

Spotify è il problema? O solo lo specchio?

C’è un gesto che negli ultimi vent’anni abbiamo dato sempre più per scontato: premere “play”. Su un telefono, un computer, uno speaker. La musica parte, ci accompagna, ci distrae, ci conforta. Ma raramente ci ferma.

Eppure, fino a non molto tempo fa, ascoltare significava altro. Voleva dire scegliere un disco. Entrare in un negozio. Aspettare un’uscita. Ascoltare significava prendersi del tempo. Un gesto attivo, quasi rituale. Oggi invece, spesso, significa solo non restare in silenzio.

Non si tratta di nostalgia. Né di snobismo. Si tratta di chiederci: che cosa abbiamo perso, mentre tutto diventava più facile? E, soprattutto: è possibile riprendere in mano il nostro modo di ascoltare, senza rifiutare il presente?

In questa serie di articoli proveremo a ragionare insieme su cosa è successo al nostro modo di ascoltare. Parleremo di come si è trasformata la relazione con la musica; di cosa avevano intuito in anticipo artisti visionari come Prince o David Bowie; di perché il ritorno al vinile, pur affascinante, non è una soluzione per tutti; e soprattutto di come, forse, possiamo ancora imparare a usare le piattaforme digitali in modo più consapevole e umano.

Ma prima di tutto, dobbiamo capire quando è cominciato il cambiamento. E per farlo, dobbiamo tornare in un laboratorio tedesco, dove un gruppo di ingegneri ha deciso che si poteva far entrare un intero album in pochi megabyte.

Quando la musica perse peso: il file MP3

Nel cuore della Germania, a fine anni ’80, il Fraunhofer Institute sviluppa un sistema di compressione audio che cambierà il mondo. Nasce l’MP3, un formato rivoluzionario: compatto, pratico, intelligente.

Come funziona? Utilizza un principio chiamato compressione psicoacustica, basato su come l’orecchio umano percepisce il suono. La nostra coclea, quella parte a spirale dell’orecchio interno, invia segnali elettrici al cervello che poi “traduce” in suoni. Ma non tutto viene recepito allo stesso modo: certe frequenze coprono altre, alcuni dettagli passano inosservati.

Il codec MP3 sfrutta queste debolezze percettive per eliminare ciò che “non si sente davvero”. Il risultato? Un file dieci volte più leggero. Un capolavoro di ingegneria. Ma anche, in un certo senso, una fotocopia della musica. Perfetta, sì — ma solo finché non la confronti con l’originale.

Dal file al flusso: e poi arrivò lo streaming

Con l’MP3, la musica diventa digitale, smaterializzata. Poi arriva Napster, poi eMule, poi iPod, poi tutto il resto. Il disco fisico cede il passo al file, e il file, presto, al flusso.

Spotify non inventa il problema. Spotify lo perfeziona.

  • Ti dà accesso a tutto, sempre
  • Ti suggerisce cosa ascoltare
  • Ti conosce meglio di quanto credi

È comodo, certo. Ma anche pericolosamente fluido. L’ascolto diventa passivo, continuo, senza attrito. Scorri, ascolti, dimentichi.

Spotify è colpevole? O solo il risultato di una domanda?

Spotify ha risolto molti problemi:

  • Ha ridotto la pirateria
  • Ha permesso a milioni di persone di scoprire nuova musica
  • Ha democratizzato l’accesso

Ma ne ha creati altri:

  • Ha deprezzato il valore di ogni singolo ascolto
  • Ha frammentato l’attenzione
  • Ha trasformato gli artisti in fornitori di contenuti

Il problema, forse, non è tanto la piattaforma. È che abbiamo smesso di farci domande.

“Ascoltiamo ancora davvero, o stiamo solo riempiendo il silenzio?”

E ora? Possiamo ancora scegliere.

Il punto non è demonizzare la tecnologia. Il punto è tornare a essere presenti nel gesto dell’ascolto.

  • Non spegnere Spotify, ma usarlo con criterio
  • Non cercare il suono perfetto, ma un’esperienza significativa
  • Non contare solo gli stream, ma riconoscere ciò che ci resta dentro

Nella prossima puntata parleremo di chi aveva già capito tutto questo. Di artisti visionari che avevano intuito dove stavamo andando, e hanno provato — a modo loro — a fermare il tempo.


Prossimo capitolo: Prince, Bowie e la profezia inascoltata
Restate sintonizzati.


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